venerdì 28 dicembre 2012

Sinisgalli, il cuore (introvabile) della poesia

Leonardo Sinisgalli, in una foto di Federico Patellani

Che libro meraviglioso è L'età della luna! Fu pubblicato nello Specchio mondadoriano nel 1962. Leonardo Sinisgalli, che ne è l'autore, aveva allora 54 anni, viveva a Roma e di tanto in tanto si recava a Montemurro, il paese della Lucania dove era nato e che torna spesso nei suoi versi. Era poeta, ingegnere, matematico, curava la pubblicità per Eni e Alitalia. In passato aveva diretto il settore pubblicità della Pirelli e fondato e guidato la rivista di cultura scientifica La civiltà delle macchine.
L'età della luna è un prosimetro, una raccolta di prose e poesie (ma forse sarebbe meglio dire testi poetici in prosa e testi poetici in versi), scritte tra il 1956 e il '62. Il testo che apre il libro, Poesia, si compone di un solo rigo (o è un verso?): “L'amore del Poeta è la realtà che egli distrugge”.
Nel corso del libro si parla spesso di poesia, con tono sentenzioso, sorpreso, ironico, divertito. In una prosa che fa parte della sezione L'immobilità dello scriba, Sinisgalli afferma che i critici svolgono “operazioni chirurgiche, alcune assai delicate (…) con la benda davanti alla bocca per arrivare al midollo spinale del povero poeta smidollato”. I critici “cercano la logica nei poeti”, ai quali giova però soprattutto “la loro innocenza”. Sinisgalli confessa: “Il mio sforzo di scrivere versi è stato appunto il disprezzo della mia saggezza”. E poi: “Credo di non sapere ancora quale sia precisamente il mestiere di poeta”.
Disprezzare la propria saggezza può anche significare non predisporre ma raccogliere. Il poeta insomma non si muove convinto verso un punto d'arrivo, verso l'obiettivo programmato, perché non ha un progetto. Non sa nemmeno capire perché il suo discordo sia partito proprio da quel verso, cosa l'abbia indotto a cominciare da lì.
Sinisgalli conclude: “I versi hanno una concatenazione che non si rivela in superficie. Convergono verso un punto che le stratificazioni possono nascondere a qualunque scandaglio, un cuore introvabile”.
Questo non significa che la parola della poesia debba essere oscura per statuto, ma solo che forse il mestiere del poeta, anche del poeta che più nitidamente ci consegna i suoi versi, è quello di rendere introvabile il cuore della poesia, di sapere che se una logica esiste è nascosta sotto le stratificazioni dei versi. Lì, in un luogo che non si rivela, c'è qualcosa che si muove continuamente, che cambia di forma e di colore.
Il mestiere di poeta (non lo dice lo stesso Sinisgalli ad inizio del libro?) è fondato intorno all'atto di distruggere la realtà, anzi intorno alla consapevolezza che, agli occhi di chi la ama, la realtà non può che apparire distrutta: scomposta, baluginante, rarefatta. E il poeta non può che tentare, all'infinito, di ricomporre in unità la parole, per dire la frammentazione della realtà.

lunedì 17 dicembre 2012

Febo Conti, fine di un'epoca


E' morto Febo Conti. Per molti è una notizia priva di significato, a me sembra sia finita un'epoca. La televisione era in bianco e nero, ai ragazzi era destinata la fascia oraria pomeridiana (un paio d'ore e non tutto il giorno: la Tv dei ragazzi, appunto), la parola telefono corrispondeva ad un apparecchio a muro, immancabilmente nero, ad altezza di adulto, la cui linea spesso veniva divisa con il condomino del piano di sotto. Erano tempi insomma di duplex e di poche telefonate, spesso precedute da richieste accorate perché venisse resa libera la linea. Esistevano ancora le macchine da cucire e quelle da scrivere, in cui il suono di un campanellino ricordava che bisognava andare a capo azionando l'apposita levetta. Il latte si comprava in latteria, restituendo una bottiglia (di vetro) vuota in cambio di quella piena.
Febo Conti diventò familiare nelle case degli anni Sessanta, perché presentava il programma Chissà chi lo sa?. Due squadre di ragazzi si confrontavano in una gara. Non cantavano canzoni imitando gli adulti, non ballavano, non raccontavano barzellette né confessavano i fatti propri, non erano futuri calciatori. Erano ragazzi come tanti altri, che rispondevano a domande alla loro portata, dimostrando soltanto di essere andati a scuola la mattina e di avere un po' di intuito.
Febo Conti tra i ragazzi a Chissà chi lo sa?
La scenografia del programma era semplicissima, su tutto campeggiava un grande punto interrogativo. La sigla cominciava così: “Ma chissà chi lo sa dove è nato Ali Babà, ma chissà chi lo sa dove vive Mustafà”. Non sono versi da ricordare, ma danno l'idea dello spirito del tempo. I presentatori avevano tutti un'espressione che li caratterizzava, Cari amici vicini e lontani..., Allegria! Quella di Febo Conti, pensate un po', era Squillino le trombe, entrino le squadre, una cosa a metà tra il libro Cuore e una rappresentazione di pupi siciliani.
Febo Conti vestiva sempre in grigio, non urlava, salutava i ragazzi stringendo loro la mano.
Anche oggi abbiamo un Conti presentatore (Carlo). Ma la sua televisione è a colori, lui è sempre abbronzato e occupa la schermo tutte le sere. L'altro Conti, quello vero (Febo, che nome!), si aggirava pallido per lo studio disadorno. E solo il sabato pomeriggio.


venerdì 14 dicembre 2012

Cosa c'entra Pasolini con i capelli di El Shaarawy?


E cosa c'entra il poeta de Le ceneri di Gramsci con l'acconciatura irsuta di Hamsik, la cresta di Balotelli? Naturalmente niente. Pasolini del resto, che tanto amava il calcio, e malgrado il suo sguardo profetico, non avrebbe potuto immaginare la deriva in cui il gioco del pallone sarebbe precipitato, né come si sarebbero presentati in campo i suoi protagonisti. Sta di fatto che le zazzere di El Shaarawy di Hamsik, di Balotelli sono diventate immagine di culto, modello da seguire, argomento giornalistico.
Il un articolo del 7 gennaio del 1973 pubblicato sul Corriere della Sera con il titolo Contro i capelli lunghi, poi raccolto negli Scritti corsari, Pasolini sostiene che la foggia della capigliatura rappresenta sostanzialmente un messaggio, espresso in un “linguaggio privo di lessico, di grammatica e di sintassi”. Nell'anno in cui scrive, il messaggio significa altro rispetto a qualche anno prima. Se un tempo era il segnale di una contestazione prima silenziosa poi sempre più rumorosa e numerosa contro la civiltà consumistica e i valori borghesi, in seguito quello stesso segnale, attraverso una serie di passaggi intermedi, era arrivato a comunicare tutt'altro. Pasolini racconta che l'anno prima si trovava nella cittadina di Isfahan, nel cuore della Persia: “per le sue strade, al lavoro, o a passeggio, verso sera, si vedono i ragazzi che si vedevano in Italia una decina di anni fa: figli dignitosi e umili, con le loro belle nuche, le loro belle facce limpide sotto i fieri ciuffi innocenti”. Ma una sera, camminando per la strada principale, Pasolini scorge “tra tutti quei ragazzi antichi, bellissimi e pieni dell’antica dignità umana”, due giovani che si muovono e si presentano in maniera diversa, “due esseri mostruosi” li definisce: “non erano proprio dei capelloni, ma i loro capelli erano tagliati all’europea, lunghi di dietro, corti sulla fronte, resi stopposi dal tiraggio, appiccicati artificialmente intorno al viso con due laidi ciuffetti sopra le orecchie”.
Il poeta traduce quello che quei giovani, per mezzo dei loro capelli, sembrano dire: «Noi non apparteniamo al numero di questi morti di fame, di questi poveracci sottosviluppati, rimasti indietro alle età barbariche. Noi siamo impiegati di banca, studenti, figli di gente arricchita che lavora nelle società petrolifere; conosciamo l’Europa, abbiamo letto. Noi siamo dei borghesi: ed ecco qui i nostri capelli lunghi che testimoniano la nostra modernità internazionale di privilegiati».
Il messaggio dei capelli di El Shaarawy e di Hamsik è analogo: voi siete dei perdenti – dicono i loro ciuffi - semmai continuate a credere che studiare possa essere la strada giusta per comprendere la vita e per la vostra affermazione sociale, ma non è così; noi invece siamo coloro che vincono, siamo internazionali e privilegiati, non leggiamo un libro e non ci importa niente del mondo come è stato fino a qualche anno fa, perché esso è profondamente cambiato rispetto a quello in cui hanno vissuto le generazioni precedenti, e sono cambiati i valori e i modi per far valere se stessi.
Pasolini afferma infine, guardando quei giovani degli anni Settanta, e chissà forse pensando anche a El Shaarawy, a Hamsik, a Balotelli e a tanti altri come loro, che “essi sono in realtà andati più indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi, e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre”. E conclude: “È giunto il momento, piuttosto, di dire ai giovani che il loro modo di acconciarsi è orribile, perché servile e volgare. Anzi, è giunto il momento che essi stessi se ne accorgano, e si liberino da questa loro ansia colpevole di attenersi all’ordine degradante dell’orda”. 
E' venuto anche per noi davvero il momento di dire che non ne possiamo più di capigliature scolpite e di tatuaggi mostrati come bandiere: “è orribile, perché servile e volgare”, questo modo di mostrare se stessi, con l'arroganza di chi vorrebbe sembrare straordinario ed è invece solo adeguato ai tempi e fedele al cliché che ci vuole un poco diversi dagli altri per essere dagli altri presi in considerazione. Ma siccome i calciatori di certo non si accorgeranno della sfrontata povertà dei loro messaggi, dovrebbero essere gli allenatori, i presidenti, gli stessi tifosi delle squadre di calcio a liberarli da questa ”ansia colpevole”. Cosa che non succederà. Del resto, tutto questo discorso è privo di senso. Cosa c'entra infatti Pasolini con i capelli di El Shaarawy?

lunedì 10 dicembre 2012

ADDIO A ROMA di Sandra Petrignani (Neri Pozza)


L'ultimo libro di Sandra Petrignani è molte cose insieme – inchiesta, narrazione, riflessione critica, ricostruzione di un ambiente sociale – e come tale è un prodotto abbastanza atipico per la nostra letteratura. In Addio a Roma (Neri Pozza editore) i vari elementi della storia, che l'autrice utilizza con accortezza e partecipazione, compongono un quadro unitario, ricchissimo di dettagli e nitido nei particolari, del mondo culturale romano nel periodo che va dai primi anni Cinquanta al Sessantotto, protraendosi fino a un Epilogo che si conclude con l'evento, dolorosissimo e inquietante, della morte di Pasolini, vero spartiacque culturale e sociale della vita collettiva del nostro paese.
Vacanze romane: il film è del 1952
A condurci per mano nella dinamica e vitalissima vicenda artistica romana di quegli anni straordinari, è il personaggio fittizio di Ninetta (nei cui panni non è difficile intravedere la stessa Petrignani), che si muove comunque a suo agio tra i personaggi, questi invece reali, che furono gli animatori delle vicende culturali del periodo. A noi, che abitiamo e ci confondiamo nelle vicende tristemente mediocri, nel confronto sguaiato e inconsistente di questo inizio millennio, sembra davvero un'epoca lontana e piena di fascino quella che vide protagonisti scrittori ed artisti che si ritrovavano, con il gusto sano e civile della discussione e del contraddittorio, intorno ai tavoli delle osterie come nelle gallerie d'arte e nelle redazioni di riviste culturali che furono al centro del dibattito culturale e politico.
Sandra Petrignani allunga su quelle vicende e sui suoi protagonisti uno sguardo affettuoso, a volte nostalgico a volte garbatamente ironico, riuscendo sempre a restituire quel misto di grande arte e di tenera follia, di geniali idee sull'esistenza e di esistenze spesso perse dietro umane gelosie e ancora più umani innamoramenti, quell'inevitabile mescolarsi di arte e vita, che costruirono uno dei tratti più significativi del fermento della Roma di quei decenni.
Amelia Rosselli negli anni '60
E' un mondo di pettegolezzi e di tenerezze, di tradimenti e di affetti, ma soprattutto di grande fervore artistico, in cui si muovono Moravia e la Morante (che non vuole essere definita la moglie dell'autore de Gli indifferenti), Pier Paolo Pasolini e Sandro Penna, Calvino, Natalia Ginzburg, Gadda, e poi l'affascinante direttrice della Galleria d'arte moderna Palma Buccarelli, De Chirico e Guttuso, Fellini e Flaiano, Parise e Arbasino, Wilcock ed Elio Pecora. Le loro vite si cercano, si intrecciano e si rifiutano, sempre comunque manifestando una voglia di dire, di capire fino in fondo il senso dell'epoca in cui era loro toccato vivere. Il lettore si trova di fronte un universo, insieme delicato e severo, generoso e crudele, ravvivato da piccoli segreti e da grandi dibattiti pubblici, comunque estremamente effervescente, in qualche modo entusiasmante, se confrontato con la miseria culturale di oggi.
Di quelle vicende Sandra Petrignani ci restituisce tutto il fascino nascosto, perché sa affondare la narrazione anche nelle piccolezze del quotidiano proprio mentre il suo discorso approfondisce aspetti critici o sociali.
Emergono così ritratti inconsueti, come nel caso dell'intensa e sorprendente storia d'amore tra Amelia Rosselli, “bella e strana”, che allora ha solo vent'anni, non ha ancora scritto niente e “deve combattere con il fantasma di Beethoven che vede dentro lo specchio ogni volta che si guarda”, e Rocco Scotellaro, il “poeta contadino”, come viene chiamato, “figlio di ciabattino, ex sindaco di Tricarico”. Lui scrive “Mi sento schifoso a confronto della sua bellezza” e poi, più tardi: “Ho avuto ciò che volevo: la più grande batosta dell'anima”.
 Il libro ci lascia con l'immagine di Pasolini, attento a sondare gli aspetti sempre più allarmanti della società che si sforza caparbiamente di analizzare e sempre più preoccupato della propria incolumità, e con le parole di Ennio Flaiano (scritte ad un amico nel 1957!): “La nausea di questo maledetto momento che stiamo attraversando! Tutto diventa materia di esibizionismo e di rotocalco. Tutto viene preso sul serio in questo maledetto paese eccetto le cose serie”.