sabato 27 luglio 2013

Produrre figure narrare storie: esperienza e invenzione in Vittorio Sereni

A riprova di quanto sostenuto nel post precedente, nel quale tentavo un'analisi di una poesia di Vittorio Sereni sulla base di una presunta (da me) tendenza del poeta a narrare storie, combinata peraltro a una ritrosia della poesia a riprodurre la realtà senza manipolarla, mi soccorre una prosa dello stesso Sereni che risale al 1962 e che venne inserita nel volume Gli immediati dintorni, ripubblicato ora in edizione ampliata da Il Saggiatore.
Vittorio Sereni
La prosa ha titolo Il silenzio creativo. Dato conto di quello stato d'animo che aggredisce un autore quando questi non riesce a scrivere una riga anche per periodi molto lunghi, provando “l'umiliazione del non farcela più”, Sereni si concentra soprattutto su quello che, a suo avviso, è l'aspetto veramente importante della questione. Di fronte a “sensazioni, impressioni, sentimenti, intuizioni, ricordi”, ai quali siamo portati ad attribuire un “senso di rarità o di eccezionalità”, il poeta si può trovare in una condizione di “insoddisfazione creativa, anzi di riluttanza di fronte alla messa in opera”, insomma è vittima di un disagio che può diventare silenzio nel momento in cui bisogna tradurre queste esperienze di vita in un linguaggio codificato e che dunque prevede moduli espressivi già sperimentati.
Da questo nasce una sorta di invidia del poeta nei confronti del narratore, capace di dare corpo, in maniera illusoria fin che si vuole, e grazie a una specie di “sortilegio evocativo”, a “figure, situazioni, vicende, ben oltre la voce, l'accento, la formulazione lirica immediata”.
Appare dunque centrale nella riflessione del poeta il rapporto tra “esperienza e invenzione”, tra quelle che sono le emozioni, i sentimenti e le vicende che la vita impone, e la loro traduzione in poesia. E' evidente perciò che la meditazione di Sereni si concentri sulla possibilità di raccontare l'esperienza di vita individuale in poesia, sulla necessità che le figure e le storie prendano corpo nei versi.
“Programmare una poesia 'figurativa', narrativa, costruttiva – conclude il poeta – non significa nulla, specie se in opposizione di ipotesi letteraria a una poesia 'astratta', lirica, d'illuminazione. Significa qualcosa, nello sviluppo d'un lavoro, avvertire il bisogno di figure, di elementi narrativi, di strutture: ritagliarsi un milieu socialmente e storicamente, oltre che geograficamente e persino topograficamente, identificabile, in cui trasporre brani e stimoli di vita emotiva individuale, come su un banco di prova delle risorse segrete e ultime di questa, della loro reale vitalità, della loro effettiva capacità di presa. Produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore... Non abbiamo sempre pensato che ai vertici poesia e narrativa si toccano e che allora, e solo allora, non ha quasi più senso tenerle distinte?”.
Mi sembra una dichiarazione di poetica, abbastanza mascherata, ma imprescindibile per capire il processo creativo alla base della poesia di Sereni.

Va detto infine che Gli immediati dintorni, libro essenziale per comprendere la complessa e varia riflessione teorica del poeta di Luino, appare come un blog ante litteram, un blog senza internet, ma con la capacità di fissare in forma non rigida notazioni, riflessioni analisi.


martedì 23 luglio 2013

Sereni, quando la poesia racconta

Di Vittorio Sereni si ricorda in questi giorni il centenario della nascita, avvenuta a Luino di Varese il 27 luglio del 1913.
Le poesie di Sereni mi sono sempre apparse come brevi racconti, che fanno perno sulla storia personale e sulla “centralità dell'esperienza” (l'espressione è del poeta Stefano Dal Bianco, fine conoscitore dell'opera di Sereni), ma nei quali altrettanto evidente è la difficoltà di raccontare, nel senso che viene meno la possibilità di credere che la realtà, anche quella immediatamente vicina, possa essere oggetto di narrazione, riferimento certo, sostanza coerente in cui avere fiducia. I versi partono spesso da un elemento concreto, una situazione ben individuabile, salvo poi smarrire questo punto tangibile di avvio in un'allusività che lascia trasparire malesseri e trepidazioni, un sentimento sgomento e palpitante.

Riporto la poesia Finestra, tratta da Gli strumenti umani, terzo libro del poeta di Luino, pubblicato per la prima volta nel 1965.

Di colpo – osservi – è venuta,
è venuta di colpo la primavera
che si aspettava da anni.

Ti guardo offerta a quel verde
al vivo alito al vento,
ad altro che ignoro e pavento
- e sto nascosto -
e toccasse il mio cuore ne morrei.
Ma lo so troppo bene se sul grido
dei viali mi sporgo,
troppo dal verde dissimile io
che sui terrazzi un vivo alito muove,
dall'incredibile grillo che quest'anno
spunta a sera dai tetti di città
- e chiuso sto in me, fasciato di ribrezzo.

Pure, un giorno è bastato.
In quante per una che venne
si sono mosse le nuvole
che strette corrono strette sul verde,
spengono canto e domani
e torvo vogliono il nostro cielo.
Dillo tu allora se ancora lo sai
che sempre sono il tuo canto,
il vivo alito, il tuo
verde perenne, la voce che amò e cantò -
che in gara ora, l'ascolti?
scova sui tetti quel po' di primavera
e cerca e tenta e ancora si rassegna.


E' evidente che l'atto quotidiano di guardare dalla finestra, il presentarsi di un'esperienza che è fatta di eventi e di personaggi (il “tu” a cui si rivolge il poeta, ad esempio, subito introdotto da quel primo verbo “osservi” e poi, ad inizio di seconda strofa, chiarito al femminile dal termine “offerta”), le azioni dell'osservare e dello sporgersi, del nascondersi, appaiono subito messi in discussione nella loro consistenza reale dall'affermazione che la primavera “si aspettava da anni”, oltre che da un procedere linguistico che alterna elementi del parlato con improvvisi trasalimenti anche lessicali (”e chiuso sto in me, fasciato di ribrezzo”) e con più letterarie costruzioni sintattiche (“In quante per una che venne / si sono mosse le nuvole”), e infine da un andamento ellittico che inaspettatamente scivola su uno spazio vicino e si concentra su un particolare, come avviene nel caso dell'”incredibile grillo”.
L'affermazione che la primavera è “di colpo è venuta”, dichiarata fin nel primo verso, ha bisogno di conferma già nel successivo, “è venuta di colpo”: una ripetizione così ostentata che pare quasi puntare a volere convincere chi scrive e chi legge di un evento che invece non è dato credere possa manifestarsi con così limpida e trepida evidenza. E difatti oltre il verde e l'alito di vento, annuncio della stagione, c'è dell'altro, assicura il poeta, “che ignoro e che pavento”, c'è quel “grido dei viali”, una realtà meno spiegabile e rassicurante, un mondo in disaccordo con la vita dei singoli, c'è un'estraneità che stenta a ricomporsi.
Incombono poi le nuvole a negare l'evento atteso, che “corrono strette sul verde” e che “spengono canto e domani / e torvo vogliono il nostro cielo”. Ma infine un'ipotesi di ricostruzione del mondo, di armonia con la vita, di equilibrio primaverile, arriva in quel canto, nel “vivo alito”, nel “verde perenne”, nella “voce che amò e che cantò”, tutti aspetti coniugati in senso esistenziale e privato. E' quella la forza che può scovare sui tetti la primavera, la voce forse della poesia, che “cerca e tenta”, ma che infine “ancora si rassegna”.


martedì 16 luglio 2013

ATTI MANCATI di Matteo Marchesini (Voland)

Il protagonista di Atti mancati, primo romanzo di Matteo Marchesini, è un trentatreenne che si sente a proprio agio solo tra libri e redazioni di giornali, sempre impegnato a scrivere recensioni e a progettare saggi, ma da qualche tempo indifferente di fronte alla vita, incapace anzi di accettare il rischio che essa impone, l'impegno che richiede anche di fronte alle sue minime, quotidiane manifestazioni. Marco Molinari è micidiale sulla carta, ma aleatorio quando parla, come dirà a un certo punto della vicenda Lucia, con cui Marco ha vissuto un'intensa storia d'amore, poi naufragata proprio di fronte alla volontà di lui, improvvisamente emersa, di rifiutare la vita e i suoi pesi. “Hai bisogno di tanto tempo vuoto davanti a te... Per farne che, poi? Sfrondi, sfrondi, e cosa rimane?” gli dice Lucia. Marco è inadeguato di fronte al presente, ma non aspira nemmeno a ricostruire il passato, a ricomporre le ragioni che lo hanno condotto alla sua scelta. E dal passato appunto riemergono il professore Bernardo Pagi, che un tempo era stato il punto di riferimento culturale di Marco, il ricordo di Ernesto, l'amico caro morto in un inspiegabile incidente stradale, Davide, il fratello di Ernesto, che ne ha quasi rubato la fisionomia ma vive in una casa di cura per malattie mentali, e soprattutto Lucia, che ritorna a Bologna con il carico di una malattia incurabile.
Sono personaggi che hanno scelto di “sparire”, di vivere in disparte, come Pagi che si è rifugiato in un borgo dell'Appennino tosco-emiliano. Solo Lucia, che pure è affaticata dalla malattia e condannata alla morte, cerca una verità, si affanna per comprendere quello che succede intorno a lei e agli altri, soprattutto vuole
ricostruire un passato che Marco sembra aver cancellato, il cui ricordo vuole ad ogni costo evitare. Solo Lucia è animata da un sentimento vitale, solo lei guarda al presente come un luogo della mente dove è possibile ricomporre il passato e costruire il futuro.
Lucia avvia una sorta di prova di forza con Marco, indotto in qualche modo, malgrado la propria riluttanza, a guardare dietro, a liberare la propria vita dalla patina di nebbia che la avvolge, a fare emergere dal passato un segreto che dia conto del suo rinunciatario stato d'animo.
Marco Marchesini, critico letterario che collabora con vari quotidiani ed ha già al suo attivo opere saggistiche e di poesia, manovra la materia narrativa con abilità e consapevolezza, spingendo a volte il lettore sul terreno dell'attesa e della sospensione, per poi deviare verso la confessione psicologica e l'analisi della condizione generazionale. Il personaggio protagonista, che è il narratore della vicenda, tende, come è nel suo modo di intendere la vita, a dire molto, negando però allo stesso tempo una verità che possa soddisfarci, cambiando spesso la prospettiva e portandoci in questo modo verso uno scioglimento finale di grande e struggente intensità.
L'ossessione di Marco è un romanzo che non riesce a concludere, anzi che rappresenta il peso incompiuto e indeterminato della propria vita. Ma c'è anche un altro romanzo che non è stato finito: è quello di Ernesto. Proprio in quelle pagine che non sono sua opera, Marco sembra ritrovare una parte di sé che non riesce a confessare. “Strana faccenda – dice il protagonista – io, che a differenza di lui ho tanta ansia di restare, di dire tutto, per qualche oscura ragione continuo a coltivare una prosa che non ha fori da cui possa sgorgare una 'spontanea' riflessione”.

Atti mancati è anche un romanzo sulla sofferenza della creazione artistica, sul difficile e tormentato rapporto tra scrittura e vita. Marco Molinari è una sorta di novello Zeno Cosini, disposto a spendere le sua parole per continuare a girare intorno a se stesso, per scavare senza mai veramente puntare alla profondità. I suoi “atti mancati” nascondono del resto l'ansia di una generazione alla ricerca di se stessa, mentre intorno i punti di riferimento svaniscono, i maestri si dileguano e le richieste di quanti sono intorno spingono verso l'annebbiamento e la rinuncia.


(pubblicato sul sito Giudizio Universale)